una storia, una notizia, o qualunque cosa valga la pena di essere raccontata



lunedì 24 marzo 2014

Francesco Di Bella e Ballads Cafè - Introdub


Piramo e Tisbe e le bacche del gelso





Foto: Piramo e Tisbe e le bacche del gelso 

«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello, lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,abitavano in case contigue.Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli: col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.

Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti, e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.

Da una sottile fessura, formatasi già al tempo della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.

Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.

Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo

o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".
Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.

L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città; ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava, un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.

Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare, calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte. Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato, giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto: audace la rendeva amore.

 Quand'ecco che, con le fauci schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere la sete sua nella fonte accanto una leonessa. 

Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro, ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.

La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete, mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.

Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere le orme inconfondibili di una belva e terreo si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue: "Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati. Di noi era lei la più degna di vivere a lungo; colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,

io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri, e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,

divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi! Ma è da vili chiedere la morte". 

Raccolse il velo di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto; poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:

"Imbibiti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".

E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta

e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue, come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende

e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.

I frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.

Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato, lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,

impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita. Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta, la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.

Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare, se una brezza leggera ne sfiora la superficie.

Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore, in pianto disperato si percuote le membra innocenti,

si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato, colma la ferita di lacrime, confonde il pianto col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido, grida: 

"Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato? Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".

Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.

Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero d'avorio privo del pugnale:

 "La tua, la tua mano e il tuo amore ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma," disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi. Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa

e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora. Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo: non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"

Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto, si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori: per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, IV, vv. 55-166


«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello, lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,abitavano in case contigue.Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli: col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.

Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti, e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.

Da una sottile fessura, formatasi già al tempo della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.

Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.

Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra, dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:



"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore? Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci? Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto, se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".

 Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole, a notte si salutarono e ognuno alla sua parte di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.

L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte, il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora, dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città; ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava, un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.

Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare, calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte. Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato, giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto: audace la rendeva amore.

Quand'ecco che, con le fauci schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere la sete sua nella fonte accanto una leonessa.

Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro, ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.

La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete, mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.

Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere le orme inconfondibili di una belva e terreo si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue:



"Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati. Di noi era lei la più degna di vivere a lungo; colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri, e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi! Ma è da vili chiedere la morte".


Raccolse il velo di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto; poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:

"Imbibiti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".

E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta

e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue, come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende

e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.

I frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.

Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato, lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,

impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita. Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta, la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.

Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare, se una brezza leggera ne sfiora la superficie.

Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore, in pianto disperato si percuote le membra innocenti,

si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato, colma la ferita di lacrime, confonde il pianto col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido, grida:

"Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato? Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".

Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.

Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero d'avorio privo del pugnale:

"La tua, la tua mano e il tuo amore ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma," disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi. Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora. Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo: non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"

Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto, si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori: per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».

PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, IV, vv. 55-166






venerdì 14 marzo 2014

Robin Friday, “il più grande calciatore che non avete mai visto”.


Robin Friday, nasce il 27 luglio 1952 ad Acton, un quartiere difficile della zona ovest di Londra. Fin da piccolo risulta molto problematico: svogliato ed incostante negli studi, mostra però un notevole talento calcistico. Durante l'adolescenza fallisce vari provini per club prestigiosi di Londra quali QPR, Chelsea e Crystal Palace a causa del suo carattere selvaggio.
A 15 anni lascia la scuola, comincia ad assumere droghe e si mette a fare il muratore. A 16 anni viene sorpreso dalla polizia a rubare un autoradio e finisce in riformatorio: qui rinforza il suo fisico e mostra tutto il suo talento calcistico nella squadra carceraria tanto da ottenere il permesso di potersi allenare con la squadra giovanile del Reading.
Scontata la pena torna ad Acton, il suo quartiere, dove conosce una ragazza di colore e la mette incinta. Robin sposa la ragazza, Maxine, e nel frattempo trova il suo primo ingaggio da calciatore: sono i dilettanti del Walthamstow Avenue Football Club a dargli il primo stipendio (10 sterline a settimana).

Il periodo nel suo nuovo club dura poco, giusto il tempo di mettere in mostra tutto il suo repertorio dentro e fuori dal campo: Robin Friday ha un enorme talento unito ad un carattere che lo porta ad essere donnaiolo, alcolista e drogato. Difetti però che non scoraggiano nel 1971 l’Hayes dall'ingaggiarlo triplicandogli la paga.


 Una leggenda narra che una volta l’Hayes ha iniziato una partita in 10: nessuno sapeva dove si trovava Robin Friday: l'hanno trovato al bar dello stadio, completamente ubriaco, e quando fa il suo ingresso in campo sono passati già una decina di minuti. È messo talmente male che gli avversari lo ignorano per tutta la partita ma pochi minuti dalla fine, approfittando della libertà che gli viene concessa, riceve un lancio in profondità e segna il gol della vittoria per la sua squadra. In quella stagione l’Hayes avanza in Coppa d’Inghilterra fino a giocare contro il Reading: nonostante la sconfitta subita, Robin Friday si mette in mostra impressionando Charlie Hurley, manager del Reading, che lo acquista per 750 sterline.

I primi allenamenti nel Reading non partono con il piede giusto: in una partitella Friday riesce a far male due o tre compagni di squadra con la sua foga agonistica, costringendo l'allenatore a farlo allenare con la squdra riserve per evitare che i veterani del gruppo si vendicano. Mister Hurley vorrebbe aspettare quindi a riportarlo in prima squadra in attesa di una maturazione ma pochi mesi dopo il Reading è in una posizione di classifica delicata e non vince da mesi: un piccolo club non può permettersi di fare a meno di Robin Friday.
Il suo esordio in campionato è, secondo la stampa locale, “stupefacente” e la settimana successiva arriva anche il primo gol con i “Royals”. Da qui comincia un crescendo incredibile: in pochissimo tempo quel ragazzo che gioca senza parastinchi, che segna gol sensazionali e che fa una vita sregolata diventa l'idolo dei tifosi del Reading.

Tutto sembra andare per il meglio eppure i suoi demoni non lo abbandonano: fuori dal campo è sempre peggio, viene cacciato malamente da diversi locali per i suoi atteggiamenti eccessivi. I compagni di squadra lo sopportano per via del suo enorme talento, ma alcuni iniziano ad avere malumori. Viene trasferito in una casa vicino alla sede del club, ma non migliora, anzi Friday viene segnalato alle autorità perchè mette dischi Heavy Metal ad altissimo volume in orari notturni, spesso in preda ai deliri del LSD.
Passano così due stagioni al Reading, in cui è comunque sempre il migliore in campo, e nella terza stagione da professionista nei Royals decide di trascinare letteralmente il club alla promozione in terza divisione: un risultato inaspettato e che arriva grazie alle sue 20 reti. Durante la festa per la promozione Robin Friday scavalca i cartelloni pubblicitari, afferra un poliziotto e lo bacia. Su questo episodio in seguito ha dichiarato: “Lo avevo visto tutto serio, invece era un momento di festa. Ma mi sono pentito di averlo fatto, visto che odio così tanto i poliziotti”.
La promozione della squadra ha cambiato Robin Friday, che nonostante sia l’idolo dei tifosi viene costretto ad andarsene dal presidente del club stufo dei suoi comportamenti: viene ceduto così al Cardiff City, una squadra di seconda divisione, che per lui offre 28.000 sterline.
In Galles si presenta subito in grande stile: viaggia in treno senza biglietto e viene arrestato appena arriva alla stazione. L’esordio di Friday con la maglia del Cardiff avviene dopo una notte dove si dice si scoli ben dodici litri di birra: avversario è il Fulham, guidato in difesa dall’ex-pilastro della Nazionale Inglese Bobby Moore. Robin Friday lo ridicolizza, segnando due reti e "omaggiandolo" con una strizzata ai testicoli, un modo per dire “ehi, tu sei una leggenda ma io sono Robin Friday e me ne frego di te”.

Dopo qualche mese Friday salta numerosi allenamenti, arriva spesso alle mani con avversari e compagni di squadra e viene trovato sempre svenuto negli hotel dove la squadra va in ritiro. Prende più volte il treno per andare e venire da Cardiff a Bristol, dove risiede, senza mai pagare il biglietto. Robin Friday in terra gallese passa alla storia grazie ad una rete.
È il 16 Aprile del 1977. Il Cardiff gioca in casa contro il Luton. È una partita maschia, Robin fa di tutto per segnare andando più volte a scontrarsi con il portiere avversario finché non decide di colpirlo al volto con una scarpinata.
Viene ammonito e si scusa, porgendo la mano al rivale, ma Aleksic, questo il nome del portiere, rifiuta la stretta e fa ripartire il gioco passandola ad un difensore: ecco allora che Robin Friday insegue a tutta velocità il difensore, recupera il pallone, punta il portiere, lo mette a sedere e segna. È un gol strepitoso, che la punta del Cardiff festeggia mostrando le dita a V al portiere rivale a terra in segno di vittoria.

La stagione succesiva le cose vanno peggio sia per il Cardiff che per lo stesso Robin Friday che durante l’estate si ammala di un misterioso virus che gli fa perdere oltre 10 chili e lo tiene lontano dai campi di gioco per tre mesi. Quando rientra l’avversario è il Brighton e il suo marcatore è lo stopper Mark Lawrenson, che non risparmia entratacce al limite del regolamento. La cosa fa innervosire talmente tanto Friday che alla prima occasione, su un intervento in scivolata del rivale, lo salta e lo colpisce in pieno volto con un calcio.
Viene ovviamente espulso, ma anziché raggiungere il suo spogliatoio raggiunge quello degli avversari, cerca e trova la borsa di Lawrenson e ci fa la cacca dentro. La misura è colma, il Cardiff in 10 e già ultimo in classifica perde 4 a 0 e Andrews, l’allenatore, lo caccia: Friday finisce fuori squadra e a fine anno annuncia il suo clamoroso ritiro. Così la stagione 1977/78, la quinta da professionista, è l’ultima da calciatore per Robin Friday che si ritira a soli 25 anni.

Torna a casa, nella sua Londra, e viene contattato dal Brentford ma quando ha già svolto il ritiro e sembra essere in forma ci ripensa e molla tutto. Lo contatta anche il Reading spinto da una raccolta di firme dei suoi tifosi, ma anche in questo caso declina: quando il nuovo allenatore, Maurice Evans, gli propone di mettere la testa a posto “per tre o quattro anni, così arriverai anche in Nazionale” Robin Friday risponde chiedendo l’età del manager e aggiungendo poi: “Ho la metà dei tuoi anni e ho già vissuto il doppio di te”.Finisce a vivere in una casa popolare ad Acton, permanenza che intervalla con quella in prigione, dove viene spedito per essersi travestito da poliziotto ed aver sequestrato droga che naturalmente ha poi consumato lui stesso.
Il 22 dicembre del 1990 Robin Friday viene trovato morto nel suo appartamento londinese a causa di un arresto cardiaco da overdose. Robin aveva appena 38 anni.

 Robin Friday viene eletto dai tifosi del Reading “Calciatore del Millennio”. Se ne va con appena 3 stagioni e mezzo al Reading e una e mezzo spesa al Cardiff, senza aver mai giocato in Prima Divisione ne in Nazionale e senza aver mai vinto un trofeo.
Friday era un calciatore duro ed egoista, incapace di giocare con la squadra ma fermo nel suo proposito di puntare e saltare l’intera difesa da solo per segnare, cosa che avveniva poi anche abbastanza spesso.

 Un talento frenato sol
tanto da se stesso. Un talento così grande, comunque, da riuscire in appena 5 stagioni di serie inferiori inglesi ad entrare nell’immaginario collettivo della patria del calcio. Un uomo che, se non è stato un campione, è stato semplicemente perché non ha voluto esserlo. Lui preferiva essere semplicemente Robin Friday, “il più grande calciatore che non avete mai visto”.

fonte epic newsnotizie fridaystoria

lunedì 3 marzo 2014

La storia della Zeza



Foto antica della Zeza a Meta.http://lazeza.jimdo.com/


Foto: Foto antica della Zeza a Meta.
http://lazeza.jimdo.com

La storia della Zeza
Il nome "A Zeza" deriva da un'antica usanza della Napoli Borbonica e della nostra Penisola Sorrentina nel periodo carnevalesco che consisteva in una bizzarra rappresentazione che si rappresentava nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie, nelle piazze, senza palco alla luce di torce a vento ad opera di attori occasionali che si facevano annunciare a suono di tamburo o di fischietto e che aveva come personaggi Pulcinella, sua moglie Lucrezia (il cui diminutivo era Zeza), la loro figlia Tolla, e Don Nicola (suo futuro marito). La Zeza rappresentava la storia delle nozze tra Don Nicola e Tolla contrastate da Pulcinella, che teme di essere disonorato ed è inconsciamente geloso, e sostenute da Zeza che vuol far divertire la figlia "Co mmilorde, signure o co l'abbate". Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente ma viene punito e costretto a rassegnarsi da Don Nicola.

Quest'usanza cessò agli inizi del nostro secolo anche perchè dalla metà dell'ottocento la sua rappresentazione fu vietata nelle piazze per le mordaci allusioni e per le parole troppo licenziose.

In penisola il corteo dei commedianti partiva da Meta, e dopo aver fatto tappa in vari punti, giungeva nella Piazza del Castello a Sorrento, l'attuale Piazza Tasso. Il corteo era preceduto dal suono della tofa, una grossa conchiglia forata all'estremità che emetteva un suono penetrante. Altra particolarità era che il nostro Pulcinella non indossava la maschera e il coppolone ma un lungo cono di cartone rivestito di coriandoli.

 La storia della Zeza
Il nome "A Zeza" deriva da un'antica usanza della Napoli Borbonica e della nostra Penisola Sorrentina nel periodo carnevalesco che consisteva in una bizzarra rapp...resentazione che si rappresentava nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie, nelle piazze, senza palco alla luce di torce a vento ad opera di attori occasionali che si facevano annunciare a suono di tamburo o di fischietto e che aveva come personaggi Pulcinella, sua moglie Lucrezia (il cui diminutivo era Zeza), la loro figlia Tolla, e Don Nicola (suo futuro marito). La Zeza rappresentava la storia delle nozze tra Don Nicola e Tolla contrastate da Pulcinella, che teme di essere disonorato ed è inconsciamente geloso, e sostenute da Zeza che vuol far divertire la figlia "Co mmilorde, signure o co l'abbate". Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente ma viene punito e costretto a rassegnarsi da Don Nicola.

Quest'usanza cessò agli inizi del nostro secolo anche perchè dalla metà dell'ottocento la sua rappresentazione fu vietata nelle piazze per le mordaci allusioni e per le parole troppo licenziose.

In penisola il corteo dei commedianti partiva da Meta, e dopo aver fatto tappa in vari punti, giungeva nella Piazza del Castello a Sorrento, l'attuale Piazza Tasso. Il corteo era preceduto dal suono della tofa, una grossa conchiglia forata all'estremità che emetteva un suono penetrante. Altra particolarità era che il nostro Pulcinella non indossava la maschera e il coppolone ma un lungo cono di cartone rivestito di coriandoli.


INTRODUZIONE
(cantando dietro le quinte)
Uagliù stet’uattent
Almen’ ‘n mument’
ulém raccuntà ‘na storia bella
‘na storia bella.
A stu Pull’c’nella,
fessone scurnacchiato
v’det’ che cacch’è cap’tat’
è cap’tat’.
P’ Zeza e V’c’nzella,
s’ n’n s’ stev’attent’,
pigliava ‘mmez’all’inguine un fendente,
un gran fendente.
Ma po’, com’ succed’,
in casa e ‘mmez’ a via,
tutt’ f’nisc’ in gloria e così sia
e così sia
VOCE
Iamm’ ià. Abbiàm o c’n iàm?
PULCINELLA
Zeza, Zè chij mo escu,
statt’attent’ a sta figliola,
tu che ssì mamma dagl’ ‘na bbona scola
‘na bbona scola.
Sta figlia n’n f’ascì,
n’n a fa pratt’cà,
ca chell’ che n’n sap’ po’ ‘mbarà
s’ po’ ‘mbarà.
ZEZA
Tu n’n p’nsà a chess’,
marit’ begl mij,
ca sta figliola agg’ cr’sciuta ij
cr’sciuta ij.
I’ semp’ agg’ saput’:
‘na femm’n ‘unurata
è cchiù d’n’ t’sor assai st’mata
assai st’mata.
PULCINELLA
Sarrà com’ tu dic’,
pensa che so unurat’,
n’n fa che torn’a casa scurnacchiat’
scurnacchiat’.
ZEZA
(a Pulcinella che si allontana)
Si pazz’ si tu crid
c’aggia t’né n’z’rrata
sta pov’ra figliola sfurtunata
sfurtunata.
Scena seconda
VICENZELLA
(entrando)
Uè mà, uè mà che veu,
mo ven Donn’cola,
st’ascenn tutt’ ngiugg’l’ d’à scola
ah! Donn’cola.
Scena terza
DON NICOLA
(entrando)
Chiedo scusa, mia signora,
è notte, ma che fare?
Il fitto son venuto ad incassare
ad incassare.
ZEZA
Mio caro Don Nicola,
ma chessa n’n è l’ora
d’ turm’ntà sta pov’ra sìgnora
e che signora!
DON NICOLA
Lo so non è il momento
chiedere il vil quattrino
però se non incasso mi rovino
io mi rovino.
ZEZA
Ma car’ Donn’cola,
Ij tìi uless dà:
n’n teng manc’ gl’occh’ a m’c’cà
a’ m’ c’cà.
Mo chiam’ V’c’nzella,
a bella p’rchiacchella,
t’ fa cunosc’ ‘a vita quant’è bella
oh, quant’è bella!
(esce e chiama Vicenzella)
DON NICOLA
Che occasione bella
parlar con questa stella
con la sciasciona mia Vicenzella
ah Vicenzella!
Scena quarta
VICENZELLA
(entrando)
Che onore è mai questo
la vostra signoria,
l’illustre Don Nicola in casa mia
in casa mia.
DON NICOLA
Mia cara Vicenzella
lo so ch’è un dispiacere
ma il fitto da tua madre devo avere
sì, devo avere.
VICENZELLA
Esimio Don Nicola,
io sono desolata,
ma state in una casa sfasulata
sì, sfasulata.
DON NICOLA
Allora a questo punto,
mia dolce Vicenzella,
permetti che ti metta una manella
una manella.
VICENZELLA
Io faccio affidamento
su voi, uomo d’onore,
nessuno sappia mai del nostro amore
del nostro amore.
DON NICOLA
O giorno fortunato!
Oh, che felicità!
Ah! Vicenzella mia pozz’ agliscià
pozz’ agliscià.
VICENZELLA
Che smania, che ardore,
io sento un gran focore,
Nicò, ma tu sei proprio un amatore
un amatore.
PULCINELLA
(gridando da fuori)
Uagliò arap’ a porta,
ij magg’ arr’t’rat,
st’amic’ a v’r’tà mann’ scucciat’
mann’ scucciat’.
ZEZA
(entrando preoccupata)
Madonna mia che uaij,
com’em’ arr’parà:
n’zipp’t sott’ i lett’ e n’n sciatà
e n’n sciatà.
DON NICOLA
Ma porca la miseria,
ma porca la marina,
potea rimaner nella cantina
nella cantina.
Or che tenea la mano
su quella celestrina,
arriva quest’emerito cretino,
ppu! Stu cretin’.
Pozza itta i’ sangu,
che pozza mo schiattà,
scusami Vicenzè,
m’aggia sfugà
m’aggia sfugà.
Si nasconde sotto il letto mentre Vicenzella esce.
Scena quinta
PULCINELLA
Zeza, muglier’amata,
m’ sent’ scusc’nat’
ma sta nuttata facc’una t’rata
una t’rata.
ZEZA
Dorm’ dò spaparanzat’,
Zeza toua sta ccà sc’tata,
nisciun t’ d’sturba
ent’a sta casa.
dent’ a sta casa
PULCINELLA
(si mette a letto mentre Zeza spegne la luce e lascia solo una candela accesa. Intanto Don Nicola fugge via ma Pulcinella si accorge di lui e grida verso la moglie)
Tu si ‘na busciardona,
‘na grand’ zucculona,
‘n’om annascus’ sott’ i’ lett’ steva
e che faceva?
ZEZA
Mala Pasqua che t’vatt’,
si tost’ com’ a sòla ,
chigl’ era i padruncin’ Donn’cola
Donn’cola.
PULCINELLA
E che uleva?
ZEZA
Uleva ess’ paiat’,
ringrazia V’c’nzella
s’ n’n vai aff’nì dent’ a na cella
dent’ a na cella.
PULCINELLA
Oh oh che m’ succed’,
mo mo vau n’galera,
annan’z acchessa m’pesa d’ mugliera
e che mugliera!
Scena sesta
entra Vicenzella, Zeza si rivolge a lei
ZEZA
T’ uogl’ fa scialà
cu cent’ nnammurat’,
cu princ’p, marches’ e cu gl’abbat’
e cu gl’abbat’.
VICENZELLA
Gnernò, mia cara mamma,
non voglio, no, scialare,
io solo Don Nicola voglio amare
io voglio amare.
Si chigl’ m’ uless’,
i mij spusarrìa,
e cchiu ‘nnanz a tàta n’n starrìa
i’ n’n starrìa
PULCINELLA
Mia cara Vic’nzella
hai pers’ l’ c’rvella
chigl’ è n’ scurnacchiat disgraziat
sì, scurnacchiat’!
VICENZELLA
No, no, no, no papà,
i’ chigl’ uogl’ amà:
si n’n m’i spos’ i’ vau a m’p’ccà
sì a m’p’ccà.
ZEZA
(affacciandosi fuori la porta)
Tras’ tras’ Donn’cola
dent’ a sta casa bella
t’ st’asp’ttenn’ansiosa V’c’nzella
V’c’nzella.
PULCINELLA
(a Don Nicola)
Che t’s’ miss’ n’ncap’,
vatten’ mò daccà
sta V’c’nzella mia n’haia tuccà
n’haia tuccà.
DON NICOLA
Qui sotto te lo metto
stu pezz’ e cacafocu
cu Don Nicola fai mal iocu
mal iocu.
PULCINELLA
Pietà, misericordia,
ij agg’ pazziat’
manneggia pur i iorn che so nat’
che so nat’.
VICENZELLA
Nicò, si m’uò ben’
n’n haia sparà a tata,
s’no i tengu’amment sta iurnata
sta iurnata.
Scena settima
MARESCIALLO
(entrando)
Cos’è questo baccano.
Ohè! I’ dic’a vuia:
vi porto tutti dentro in gattabuia
in gattabuia.
DON NICOLA
La colpa non è nostra,
egregio Maresciallo,
ma sol di questo scemo pappagallo
pappagallo.
MARESCIALLO
Cos’altro ha combinato
Quest’anima dannata,
questo cercopiteco disgraziato,
ah, disgraziato!
DON NICOLA
Non mi vuol dar la figlia,
la cara Vicenzella,
per me ancor più bella d’una stella
di una stella.
MARESCIALLO
Rispondi n’zallanut’,
rispondi, gran cornuto,
grande è questa sorte ch’ai avuto
che hai avuto.
Di dare Vicenzella
sposa a Don Nicola:
si aspetta solo ormai la tua parola
la tua parola.
PULCINELLA
Esimio cavaliere,
real carabiniere,
mannaggia a vita mia disgraziata,
disgraziata.
MARESCIALLO
(minacciando)
Se pensi d’imbrogliare
e di tergiversare,
al manicomio ti dovrò portare,
dovrò portare
PULCINELLA
Gnorsì, i’, so cuntent’
e dicu sta parola,
sta figlia mia donch’ a Donn’cola
a Donn’cola.
VICENZELLA
(abbracciando Don Nicola)
O grande amore mio,
o mia passione ardente,
uniamo il nostro amore immantinenti
immantinenti.
MARESCIALLO
Focosi giovincelli,
fermatevi un momento,
il matrimonio è certo un Sacramento,
un Sacramento.
ZEZA
Ij ciagg’ già p’nsat’,
trasit Don Pascà,
ca chessa figlia mia s’ uò spusà
s’ uò spusà.
DON PASQUALE
A tutti pace e bene,
carissimi fratelli,
ma soprattutto a te mia Vicenzella,
mia Vicenzella
Oh, come son contento,
perchè sto Pulcinella,
voleva farti star sempre zitella,
sempre zitella.
ZEZA
Che vita che destin’,
a fianch’ a stu cretin’
s’ sposa finalmente’ ‘a figlia mia,
‘a figlia mia.
DON PASQUALE
Zeza datti una calmata,
se la figlia vuoi sposata,
bisogna far processo e incartamenti,
incartamenti.
ZEZA
No, no, no, Don Pascà,
n’n m’ fa n’cazzà,
sta cosa lamp’ e scamp’ s’adda fa,
mo s’adda fa.
MARESCIALLO
Zeza mia cos’è stasera,
sembri proprio una chiazzera,
e offendi il nostro caro Don Pasquale,
Don Pasquale.
DON PASQUALE
Egregio Maresciallo,
Perdono il suo fallo,
per contentezza Zeza ha scantonato,
ha scantonato.
Orsù non t’agitare
Qualcosa si può fare
Promissio boni viri est obligatio
MARESCIALLO
(rimarcando)
Est obligatio!
PULCINELLA
Don Pascà i’ so gnurant’,
MARESCIALLO
Ignorante e un pò cretino,
perciò non può capir questo latino
TUTTI
Questo latino
VICENZELLA
Ma il mio Don Nicola,
sempre primo nella scuola,
lezione potrà dare a voi presenti,
a voi presenti.
DON NICOLA
O cari miei signori,
non credo che vi offendo,
se dico che ho capito il reverendo,
il reverendo.
A me ha voluto dire,
che l’uomo onorato,
alla promessa si sente obbligato,
MARESCIALLO
Sempre obbligato.
DON NICOLA
Perciò io sono pronto,
a fare la promessa,
se pure Vicenzella fa lo stesso,
MARESCIALLO
Assensus consortis!
VICENZELLA
Giacchè tutti contenti,
felici e sorridenti,
ZEZA
non resta che invitar tutti i presenti
tutti i presenti.
PULCINELLA
Via, datevi la mano,
puzzat’ gudè n’cocchia!
PULCINELLA
Ah! Ah! Cari signori,
n’n v’ n’zurat’ maij,
chè na mugliera porta semp’ uaij
semp’ uaij
DON PASQUALE
O uomo scostumato,
figlio scomunicato,
e tu da chi saresti nato?
TUTTI
Saresti nato!
MARESCIALLO
O grande farabutto,
rovini sempre tutto,
sei proprio di natura acerbo frutto.
TUTTI
Acerbo frutto
VOCE
Ma che cacch’ stet’ cumb’nenn’?
ha f’nuta o no sta storia?
TUTTI
Ha f’nuta, ha f’nuta
sta storia accussì bella,
e mo appiccia pur’a furnacella
e mitt’ ‘a tiella.
MARESCIALLO
Si po’ n’nt’è piaciuta,
che c’ putem’ fa,
Vattenn’ pur’ a fa… chell’ che aia fa
TUTTI
E vall’ a fà.
FINE
 

CARNEVALE, E vui ca l’avite visto st’anno/ lu puzzate vede’a ca a cient’anne



 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”.


All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.




Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746 re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei festeggiamenti. I carri furono poi sostituiti da più stanziali cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778 con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.




Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti detti ‘o putipù, ‘o triccaballacche e ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.


Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto) alle quali si contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne



(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).


Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.


FONTE: www.skipblog.it

IL LIBRO DELLO SCAFFALE

Foto: -Voglio solo essere felice, dici che me lo merito?
-Io credo di sì – rispose lui guardandola negli occhi verdi.
 -E tu? Che cosa vuoi?
-Io voglio soltanto bere con te il primo caffè del mattino, mi basta questo. Ma dev’essere ogni mattina per il resto della nostra vita. Ti va?"

(Diego Galdino, Il primo caffè del mattino)
-Voglio solo essere felice, dici che me lo merito?
-Io credo di sì – rispose lui guardandola negli occhi verdi.
-E tu? Che cosa vuoi?
-Io voglio soltanto bere con te il primo caffè del mattino, mi basta questo. Ma dev’essere ogni mattina per il resto della nostra vita. Ti va?"


 (Diego Galdino, Il primo caffè del mattino)

Alain Curtis, GOOD LUCK TO NAPOLI+SWANSEA

Alain Curtis, ex nazionale gallese e coach dello Swansea, innamorato folle di Diego Armando Maradona e di Napoli. Perdere qui nello stadio del Diez e' stata per lui una sconfitta meno amara. Good luck my friend.